SERENA VESTRUCCI
SERENA VESTRUCCI
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SERENA VESTRUCCI
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SERENA VESTRUCCI
SERENA VESTRUCCI
SERENA VESTRUCCI
“GIù LE SCARPE DAL TAVOLO!”
Ogni sette anni si rinnovano le cellule: adesso siamo chi non eravamo.Anche vivendo – lo dimentichiamo -restiamo in carica per poco.
Antonella Anedda
Uno degli aspetti che trovo più divertenti dei bambini è la tendenza a fare dispetti. Per un bambino, il dispetto è un modo per interrogarsi sui limiti: compiere un gesto di sfida verso una norma significa indagarla, esplorarne le conseguenze per situarne i confini. Fare dispetti, e dunque esercitarsi a collocare i limiti, è un modo per comprendere il mondo. Giù le scarpe dal tavolo! può essere visto come un duplice dispetto. Al tavolo, e al tempo. Quando Serena Vestrucci è entrata a Casa Gramsci, la scorsa primavera, ha scoperto di non essere sola. A Casa Gramsci c’era già il tavolo. Un tavolo massiccio, nero, ingombrante; un tavolo rettangolare, di legno, che occupa la stanza nel senso della lunghezza. «Con questo tavolo ci devo per forza convivere», mi ha detto al telefono, col tono incuriosito di chi deve fare i conti con un ospite imprevisto: «inutile farci la guerra». La guerra no, ma un dispetto magari sì. Certo, fare un dispetto a un tavolo è difficile. Un dispetto vero, non uno di quei dispetti adulti che eccedono nello scherno, o nello sfregio. Per fare un dispetto vero bisogna tornare bambini, tornare al periodo della vita in cui non si sa nulla e perciò si deve imparare tutto – comprese le convenzioni sociali, compreso il fatto che l’unica cosa che sul tavolo non si può proprio mettere sono i piedi. Peggio ancora, le scarpe. Eccolo, il dispetto: un dispetto in apparenza innocuo, ma il tipico dispetto dell’artista, che incide diagonalmente sulla realtà, producendo uno squarcio, uno strappo, che apre nuovi orizzonti di senso: Serena Vestrucci mette le scarpe sul tavolo. E quello che sembra un dispetto diventa un modo per attirare l’attenzione sull’oggetto, che smette di essere una mera superficie d’appoggio proprio perché Vestrucci ci appoggia l’unica cosa che non avrebbe dovuto appoggiarci. L’azione di mettere le scarpe sul tavolo diventa in sé un manifesto, che ci dice che un limite può sempre diventare una risorsa, che il contesto non può essere ignorato, e che un’arte che si sforzi di esplorare il mondo è sempre un’arte che accetta di fare i conti col reale – con la struttura, direbbe Gramsci, il cui nome sul quel tavolo si riflette.Poi, naturalmente, c’è la scelta di cosa mettere dentro alle scarpe. Serena Vestrucci sceglie i fiori. Fiordalisi, margherite, tulipani, iris, girasoli, rose, peonie, garofani, viole. Ed è qui che Giù le scarpe dal tavolo! diventa una sfida al tempo. Decidere di porre al centro di un’opera dei mazzi di fiori recisi significa rinunciare almeno in parte al proprio potere di artista: il momento in cui Vestrucci recide il cordone ombelicale della creazione dando vita all’opera è anche il momento in cui ne perde il controllo.La palla passa al tempo, che la sostituirà nel ruolo di artista. Il primo giorno si schiuderanno i boccioli, il secondo si stiracchieranno i petali, il terzo saranno in piena fioritura, dal quarto l’orlo delle corolle si farà via via più giallo, il quinto lo stelo comincerà a incurvarsi, il sesto si noterà qualche petalo sul tavolo, il settimo i fiori avranno già il capo chino. È solo il tempo che fa il suo mestiere. Prevedibile, ma non controllabile.Eppure, come sa bene la signora Dalloway, l’inevitabilità della morte non può escludere la celebrazione della vita: la festa si farà, anche se nel frattempo è arrivata la notizia del suicidio di Septimus. L’importante è tenere a mente l’ambivalenza, sapere che lo stesso gesto può racchiudere più significati, che i fiori strizzano l’occhio alla morte mentre inneggiano alla vita, e che la loro bellezza risiede proprio in questo mistero. «Un giorno mi ha detto che le piaceva vendere i fiori anche se erano destinati ad abbellire tombe, che una rosa è una rosa, e che sia destinata a un matrimonio o a un funerale non aveva nessuna importanza, che sulle vetrine dei fiorai c’era scritto “Matrimoni e funerali”, e che l’uno era imprescindibile dall’altro»: a parlare – o meglio, a scrivere, – è Valérie Perrin in Cambiare l’acqua ai fiori. Vestrucci l’acqua non la cambia, sa che il coltello dalla parte del manico ce l’ha sempre il tempo, e la cura, in questo caso, non è che un surrogato del potere. La fine si può rimandare, ma non evitare. E allora, per salvare l’ambivalenza e impedire alla morte di prendere il sopravvento, è necessario un altro dispetto: è ciò che fa Vestrucci quando decide che l’esibizione durerà sette giorni. Se i fiori hanno i giorni contati, è lei che sceglie quanti contarne. Dà al tempo sette giorni. Sette giorni per mettere mano all’opera. Ma sarà lei ad avere l’ultima parola, sarà lei a scegliere il momento della fine. Da artista, Vestrucci si riserva il controllo sui due istanti principali della creazione: l’inizio e la fine. Dopodiché Giù le scarpe dal tavolo! chiuderà i battenti, e dell’installazione di Vestrucci non rimarranno che le fotografie: tempo fermo, cristallizzato, ingannato dal colpo di reni dell’artista, che sceglie la vita e gioca con la morte, senza però cedervi del tutto.D’altra parte, come diceva Orson Welles, Il lieto fine, naturalmente, dipende da dove decidete di interrompere la storia.
Isabella Pasqualetto

SERENA VESTRUCCI BIO
Serena Vestrucci (Milano, 1986). Dopo la laurea triennale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, consegue la laurea magistrale in Progettazione e Produzione delle Arti Visive all’Università IUAV di Venezia.
Impregnate di una sottile ironia verso la contemporaneità, le opere di Vestrucci sondano l’ovvietà delle piccole cose, dando voce a ciò che spesso è nascosto, dimenticato o messo in secondo piano. Attraverso un linguaggio giocoso, ma diretto e provocatorio, l’artista eleva l’ambiguità a elemento fondante per una comprensione più accurata della realtà.
Vestrucci ha esposto il proprio lavoro in mostre personali presso numerose istituzioni italiane tra cui: Casa Gramsci, Torino; Galleria Renata Fabbri, Milano; Galleria FuoriCampo, Siena; Galleria d’Arte Moderna, Verona; Museo Archeologico Salinas, Palermo; Marsèlleria Permanent Exhibition, Milano; Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Genova; Galleria Ottozoo, Milano.
Tra le mostre collettive: Palazzo Ducale, La Biennale di Gubbio; Palazzo Merulana, Roma; Palazzo Grillo, Genova; Museo MAXXI, Roma; Fondazione Stefan Gierowski, Varsavia; Fondazione Made in Cloister, Napoli; Fondazione Imago Mundi, Treviso; Fondazione Pastificio Cerere, Roma; Palazzo Reale, Milano; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Galleria d’Arte Moderna, Milano; Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Genova; Palazzo Del Medico, Carrara; Casa Testori, Novate Milanese; Blitz, Valletta, Malta; Istituto Italiano di Cultura, New York; Istituto Italiano di Cultura, Londra; Istituto Italiano di Cultura, Varsavia; Istituto Italiano di Cultura, Cracovia; Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia; FRISE Künstlerhaus, Amburgo; Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno; Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia; Stedelijk Museum, ‘S–Hertogenbosch.
Nel 2017 vince la diciottesima edizione del Premio Cairo e viene selezionata dal Comune di Milano per la realizzazione di un’opera pubblica permanente nell’ambito della commissione di arte pubblica ArtLine Milano.