LUNETTA11 PRESENTA A ARTVERONA LA MOSTRA “POPOLO NUOVO” CON FRANCESCO MENZIO, ISMAELE NONES, EDOARDO MANZONI, BRIAN BELOTT, SIMONE SETTIMO E SOLOMOSTRY

UN POPOLO NUOVO

Non c’è arte giovane, ci sono giovani artisti, l’arte non ha età, non può avere età la pratica che ha sconfitto la storia, la dimensione, il tempo, e che ha conquistato lo spazio.

F. A. Miglietti

Da cosa nasce cosa. Gli istanti entro i quali un nuovo popolo si manifesta non possono che essere spazi di condensazione. Ci occorre qualcuno che abbia già avuto le nostre stesse idee. Il raggiro del nuovo gusto farà scordare da dove esso è arrivato. È infatti solo allontanandosi dalle cose che queste appaiono più grandi alla nostra vista. L’occhio dei popoli vecchi era un organo intatto e sano. Il Novecento ha sminuzzato i bulbi oculari: i frammenti che ne sono derivati tessono la trama di un arazzo contemporaneo; il magnetismo dello sguardo scarica senza interruzioni un ordito elettrico che galvanizza realtà che si credevano sopite. Questa frammentarietà dell’occhio rende l’arte il luogo per eccellenza dove esercitare una complessità abissale. Un luogo in cui accostare tempi smarriti e spazi imprecisati, veglia e insieme cessazione della visione. Un accumulo di tensioni, di alterità, di impeti e di riflessioni, di iconoclastie selvagge, di dichiarate citazioni, di riforma di scenari collettivi e di identità frantumate e riapparecchiate secondo gli appetiti del popolo nuovo.

Convocati qui ed ora, nuovi artisti ribelli, sul solco lasciato da Francesco Menzio, si apprestano a richiamare la nostra attenzione nei confronti del mondo che hanno costruito.
Le opere di Edoardo Manzoni (1993) si confrontano con l’immaginario potente della caccia, la cui violenza diventa valore estetizzante che svia e seduce. Le sue sono trappole che, manifestandosi nel tempo e nello spazio – una contraddizione -, perdono la loro funzione innata: diventano sculture totemiche che ci catturano grazie alla loro forma inusuale, di cui il nostro sguardo non ne riconosce l’origine (L’allodoliere). Se Ismaele Nones (1992) dalle icone, in mezzo alle quali è cresciuto, non riprende i soggetti religiosi, indubbiamente ne restituisce intatto fascino e mistero ad un occhio “cattolico”. La prospettiva distorta, che ne è peculiarità, trasferisce in un unico piano soggetto e spettatore; le sue pitture oltre il tempo fanno vedere, a prescindere dall’osservatore, qualcosa che è presente, il visibile: non tutto è negli occhi di chi guarda (I lottatori). Pierluigi Scandiuzzi (1993) mette in mostra la sensibilità del banale che irrompe nello spazio con frammenti che si fanno totalità: le immagini devono essere molteplici, il quotidiano si veste così d’arte. E a lacerare le tele sembrano pensarci gli acrilici e inchiostri iridescenti che utilizza, arrivando quasi a corrodere le superfici come un acido cangiante (Eudaimonia, Macchina del tempo, Tantra Bazar).
Il gesto grafico di Solomostry (1988) vede e rivede nella strada i mostri nascosti che questa genera. Guardare con più attenzione quello che si è già visto, addentrarsi nei dedali delle sue linee – talvolta pulite talvolta gocciolanti -, che, governate da forze centripete, spesso convergono negli occhi di un mostro impenetrabile che ci scruta (Titoli…). Nella pittura di Simone Settimo (1978) non si può prevedere cosa che sta succedendo, e nemmeno a causa di chi sta accadendo. Una scena che trova nella spontaneità naïf dei suoi personaggi il suo equilibrio, un concerto di stili e di colori vivaci, come quello che si può ascoltare attraversando un paesaggio uscito da una fiaba metropolitana. Conta solo l’Amore! (Nur die liebe zahlt).
Anche Francesco Menzio (1899-1979) ha fatto parte a suo tempo di un popolo nuovo di straordinaria qualità. La sottigliezza raffinata e riservatamente misteriosa (C. Levi) ritorna in scena a dialogare con questi giovani artisti. Si tratta di un circuito carsico, dalle stanze chiuse ad uno spazio di condensazione – in fondo tutta la storia dell’arte lo è -, una partecipazione che ha tutto il sapore di un rinnovamento immaginifico del mondo. La forza del suo quadro Langhe (1968) ci invita a riconsiderare come un nuovo popolo non possa che manifestarsi nella geografia di un paesaggio, piuttosto che nell’avanzamento temporale della Storia.

Leonardo Manera